Il pianoforte a coda è uno degli strumenti più affascinanti e complessi mai ideati, non solo per la sua voce ricca e dinamica, ma anche per l’ingegneria raffinata che ne costituisce il cuore: la meccanica.

Fin dalla sua invenzione nel XVIII secolo, il pianoforte ha subito una trasformazione continua, guidata da un costante desiderio di migliorare la risposta al tocco, la potenza sonora e la precisione esecutiva. La meccanica, ovvero il sistema che trasforma il movimento delle dita sul tasto nel suono prodotto dalla tavola armonica, è stata oggetto di innumerevoli innovazioni, brevetti e perfezionamenti.

Questa evoluzione ha visto il passaggio dalle prime meccaniche semplici degli strumenti di Bartolomeo Cristofori alle sofisticate azioni moderne, caratterizzate da una sensibilità e una reattività straordinarie. Dietro ogni passaggio tecnico, c’è stata la mano di artigiani, inventori e costruttori visionari che hanno contribuito a definire la storia del pianoforte come lo conosciamo oggi.

In questa pagina ripercorriamo le tappe fondamentali dell’evoluzione meccanica dei pianoforti a coda, analizzando i sistemi che si sono succeduti nel tempo, i loro principi di funzionamento, i materiali impiegati e le implicazioni musicali che ne sono derivate. Un viaggio tra artigianato, fisica e passione per comprendere a fondo cosa rende ogni pianoforte unico non solo nel suono, ma anche nella sua anima meccanica.

Il principio di funzionamento della meccanica del pianoforte a coda

Alla base del funzionamento della meccanica di un pianoforte a coda c’è un’idea semplice, ma tecnicamente sofisticata: trasformare il gesto del pianista in un colpo controllato e preciso su una corda, che vibra e produce suono.

Quando un tasto viene premuto, questo aziona un sistema complesso di leve e molle che mette in movimento un martelletto. Il martelletto colpisce la corda e subito dopo si stacca da essa, permettendole di vibrare liberamente. Affinché il meccanismo sia efficace, deve accadere qualcosa di straordinario in pochi millesimi di secondo: il tasto deve offrire la giusta resistenza al tocco, il martelletto deve essere lanciato verso la corda con velocità proporzionale alla forza del gesto, e poi deve rimbalzare senza tornare in contatto con la corda, per evitare di soffocare il suono.

Contemporaneamente, entra in gioco anche lo smorzatore, che solleva dalla corda al momento della pressione del tasto e vi si riappoggia quando il tasto viene rilasciato, fermando la vibrazione. Tutto ciò permette al pianista di avere un controllo straordinario su dinamica, articolazione e durata del suono.

Un elemento fondamentale del funzionamento moderno è il meccanismo di scappamento, che consente al martelletto di riposizionarsi rapidamente senza dover sollevare completamente il tasto, rendendo possibile la ripetizione rapida di una nota. Questo principio, sviluppato nel tempo, affonda le sue radici proprio nei primi esperimenti del suo inventore: Bartolomeo Cristofori.

Bartolomeo Cristofori, 1720

Bartolomeo Cristofori (1655–1731), costruttore di strumenti della corte medicea a Firenze, è universalmente riconosciuto come l’inventore del pianoforte. Intorno al 1700, sviluppò uno strumento che chiamò “gravicembalo col piano e forte”, capace di suonare sia piano che forte grazie a un meccanismo rivoluzionario: la meccanica a scappamento.

A differenza del clavicembalo, in cui il suono è prodotto pizzicando la corda, il pianoforte di Cristofori utilizzava martelletti ricoperti in cuoio, azionati da una complessa serie di leve. La sua invenzione più importante fu proprio lo scappamento, un sistema che permetteva al martelletto di essere lanciato verso la corda ma di disaccoppiarsi immediatamente dopo l’impatto, evitando il doppio colpo e lasciando la corda libera di vibrare. Questo principio è ancora alla base di tutte le meccaniche moderne.

Il progetto di Cristofori era straordinariamente avanzato per l’epoca. Oltre allo scappamento, includeva un sistema di contro-leva e una guida per il martelletto, soluzioni che garantivano precisione e affidabilità. Nonostante la complessità della sua meccanica, gli strumenti di Cristofori erano noti per la loro sensibilità e per la possibilità di variare la dinamica in modo molto più espressivo rispetto agli strumenti a tastiera contemporanei.

Questa meccanica possiede, per quei tempi, uno straordinario grado di perfezione.
Premendo il tasto si aziona lo spingitore (A) che trasmette il movimento alla base della noce del martello (B) sulla quale è infilata l’astina che regge il martello. Prima che questo raggiunga la corda, lo spingitore viene liberato grazie alla rotazione intorno al fulcro (D) per cui l’ultimo tratto della corsa, dove avverrà la percussione, sarà solo grazie allo slancio accumulato (com , in modo perfezionato, avviene nelle moderne meccaniche).
Quando la percussione è avvenuta,la corsa di ritorno del martello verrà fermata dal paramartello (E). Lo spingitore può tornare alla posizione primitiva grazie ad una molla regolabile, in modo che sia nuovamente pronto per ribattere.

Johann Andreas Stein, 1770

  1. Intorno al 1770, in un’epoca in cui il pianoforte si stava diffondendo sempre più tra aristocratici, compositori e musicisti professionisti, Johann Andreas Stein (1728–1792), costruttore tedesco attivo ad Augsburg e figura centrale della cosiddetta scuola viennese, sviluppò una meccanica che avrebbe segnato un’intera epoca: la meccanica viennese, o “prellmechanik”.

    Diversamente dalla più complessa meccanica di Cristofori, quella ideata da Stein era più leggera, semplice e reattiva, e si adattava perfettamente alle esigenze del gusto musicale dell’epoca, orientato verso la chiarezza del tocco e l’espressività dinamica, in un periodo in cui si affermavano Haydn, Mozart e i primi lavori di Beethoven.

    La meccanica viennese si basa su un principio di spinta dal basso verso l’alto: il tasto, premuto, aziona direttamente una piccola leva (detta “prellmechanik”) che spinge il martelletto verso la corda. Una volta colpita la corda, il martelletto ricade per gravità, senza un sistema di scappamento propriamente detto, ma con una resa sufficientemente precisa per i passaggi rapidi e per una buona articolazione.

La noce del martello (B) è imperniata attorno ad una forcola (F), saldamente ancorata al tasto. Premendo quest’ultimo,la parte retrostante della noce viene “agganciata” da una levetta (G),che ha la funzione di una moderna leva di scappamento per cui,come sopra descritto, impedirà al martello di “stoppare” la corda percossa. Questa è dotata di una molla che assicura il rapido ritorno in posizione per il ribattuto successivo. La levetta (G) è molto liscia e grafitata, in modo da permettere alla noce di scivolare agevolmente durante il ritorno.

John Broadwood, 1780-1800

Alla fine del XVIII secolo, in Inghilterra, il pianoforte inizia a diffondersi rapidamente, grazie anche a costruttori come John Broadwood, che sviluppano strumenti più grandi, potenti e robusti, pensati per le esigenze di una musica sempre più espressiva e dinamica.

Mentre la scuola viennese privilegiava la leggerezza e l’agilità, la meccanica inglese puntava su solidità, potenza e risonanza, qualità ideali per affrontare la nuova sensibilità romantica.

questa meccanica si distingue per una struttura più pesante e robusta con componenti più massicci, offrendo al pianista un tocco più profondo e una risposta più solida. Il funzionamento del martelletto si basa su una leva semplice che agisce sulla parte posteriore del martelletto stesso, imprimendo la forza necessaria per colpire la corda. Pur essendo meno diretto rispetto alla meccanica viennese, questo sistema consente un attacco più energico e deciso. All’interno di questa meccanica è già presente un primo sistema di scappamento, ancora rudimentale, che permette al martelletto di staccarsi dalla corda subito dopo il colpo. I martelletti sono rivestiti in feltro, anziché in semplice cuoio o pelle, contribuendo a un suono più caldo, rotondo e corposo. Itasti diventano più lunghi e offrono una corsa più ampia, andando a migliorare il controllo sul suono.

Sébastien Érard, 1821

All’inizio dell’Ottocento, la musica per pianoforte stava diventando sempre più virtuosistica e dinamica. I compositori (e interpreti) chiedevano strumenti capaci di ripetere rapidamente le note, mantenendo però controllo, precisione e varietà timbrica. Le meccaniche precedenti, come quella viennese o inglese, non erano abbastanza reattive per sostenere questi nuovi linguaggi musicali.

In questo contesto, Sébastien Érard, costruttore di origini alsaziane attivo a Parigi e Londra, realizza nel 1821 una vera svolta: la meccanica a doppio scappamento.

Grazie al doppio scappamento, il pianoforte diventa finalmente uno strumento capace di reggere le richieste della musica romantica, aprendo la strada alla scrittura di autori come Liszt, Chopin, Schumann e successivamente Ravel o Debussy.

I pianoforti Érard furono amati da molti di questi compositori, in particolare da Liszt, che li utilizzò a lungo per le sue esecuzioni, proprio per la loro resistenza e sensibilità.

Steinway & Sons, 1860

Con l’introduzione della meccanica creata e perfezionata da Steinway & Sons tra il 1860 e il 1880, il pianoforte a coda raggiunge una struttura meccanica così efficace e versatile da diventare lo standard su cui si basano ancora oggi quasi tutti i pianoforti moderni.

Da quel momento in poi, non ci sono state vere rivoluzioni, ma una lunga e raffinata serie di ottimizzazioni e perfezionamenti su quella base già straordinariamente solida. Tra questi possiamo citare l’ottimizzazione dei materiali, con l’uso di legni selezionati, feltri speciali, resine o addirittura materiali sintetici (come carbonio o ABS) e la standardizzazione di altissima precisione grazie alle tecniche costruttive contemporanee.

Oggi, alcuni dei migliori produttori continuano a evolvere questa tradizione con competenza e innovazione.

Marchi come Renner (Germania) forniscono meccaniche di altissimo livello a molti dei più prestigiosi costruttori europei, mantenendo viva la scuola tedesca di precisione e affidabilità.

Altri, come Steingraeber & Söhne, spingono ancora più avanti la ricerca, introducendo soluzioni originali: leve alleggerite per la musica antica, tastiere in carbonio per una risposta ultraleggera, oppure sistemi personalizzati per pianisti con esigenze fisiche specifiche.

In sintesi, se la meccanica Steinway dell’Ottocento ha segnato la nascita del pianoforte moderno, la meccanica contemporanea ne rappresenta la maturità, dove ogni dettaglio viene curato per offrire al pianista massima espressività, controllo e affidabilità, senza mai tradire l’equilibrio inventato più di un secolo e mezzo fa.

Dalla rivoluzione alla perfezione: la meccanica dopo Steinway

Nel XIX secolo, il pianoforte era diventato lo strumento principe della musica colta e borghese. Cresceva la richiesta di strumenti più potenti, con una maggior estensione dinamica, capaci di riempire sale da concerto sempre più grandi. La meccanica viennese (come quella di Stein, poi perfezionata da Walter e Streicher) e quella inglese (Broadwood, Erard) avevano già migliorato notevolmente la risposta del martelletto, ma era necessario un salto in avanti.

Fu in questo contesto che Steinway & Sons introdusse nel 1860 una meccanica che avrebbe definito lo standard per il pianoforte moderno, ancora oggi in uso.

Basata sul principio inventato da Sébastien Érard nel 1821 (doppio scappamento), Steinway ne perfezionò la costruzione, migliorando la ripetizione della nota (più veloce e fluida), la stabilità della meccanica anche sotto sforzo e il controllo del tocco, essenziale per i pianisti virtuosi. Questo sistema permette al martelletto di tornare rapidamente alla posizione di riposo senza che il tasto debba risalire completamente, rendendo possibile il trillo e la ripetizione rapida.

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